Thomas Jefferson, l’araldo del vino
Azélina Jaboulet-Vercherre
Professoressa associata, Ferrandi Paris
Ogni uomo di cultura ha due patrie: la propria e la Francia1
Thomas Jefferson (1743-1826), uno dei padri della democrazia americana, autore della Dichiarazione d’indipendenza (4 luglio 1776), è ricordato come ardente difensore del vino. Il suo profilo d’enofilo ben lo situa nel suo secolo al contempo consacrandolo come precursore, quale gustoso paradosso.
Il vino, stendardo della moderazione
Uomo del suo tempo, come dimostravano il suo carattere cosmopolita, la sua cultura umanista e le sue posizioni filosofiche, fu categorico: il vino è distinto dagli alcolici. Ma, come fecero anche gli oppositori alle ambizioni proibizioniste della prima ora, è andato ben oltre, imponendo il vino come rimedio all’alcolismo. Così facendo, si collocò nel nutrito gruppo di medici eruditi che, rifacendosi al corpus ippocratico, avevano annoverato il vino tra gli strumenti terapeutici più efficaci.
Un ambasciatore tra i vigneti
Durante la sua permanenza a Parigi (1784-1789) in qualità di ministro plenipotenziario in Francia dei nascenti Stati Uniti d'America, il “foreign gentleman” (come si compiaceva di autodefinirsi) ha percorso in lungo e in largo sotto mentite spoglie la Francia e i suoi vigneti, rafforzando ancor di più la sua convinzione dei benefici del vino sulla salute fisica e mentale2. I suoi quaderni di appunti ci guidano sulle tracce di questo esteta del vino e dei vigneti, in grado di apprezzarli anche per la loro bellezza3. Ne otteniamo una serie affascinante di percorsi enoici presentati in modo immaginifico e personale. Nei suoi scritti, effettivamente, il vino acquista una vita degna di un personaggio da romanzo, carico di brio. Le sfumature del suo pennello creano ritratti golosi di vini che accendono un desiderio imperioso di assaporarli e di percorrere i filari dove essi hanno origine. Nei suoi quaderni, il pittoresco va a braccetto con l’osservazione rigorosa.
Valore diplomatico
Il diplomatico gentleman aveva un gusto sicuro e proclamava le sue preferenze. Degustatore ispirato, ha elaborato una classificazione dei vini bordolesi che è possibile accostare a quella, più nota, del 1855. Ci si dimentica talvolta l’origine contabile (ispirata ai dati forniti dai mercanti della Place su richiesta di Napoleone III) di quest’ultima. Jefferson non trascurava neanche gli aspetti più materiali (il prezzo e l’impatto fiscale) e tecnici (i metodi viticoli). Eppure, ci piace credere che la sua classificazione è più sensoriale, più sensualista – più estetica. Rimaniamo incantati nel sentirvi le eleganti eco di una vita mondana di successo.
Jefferson non si è fermato ai due “mostri sacri” del vigneto francese (Borgogna e Bordeaux), ma ha percorso anche le terre viticole del sud della Francia, dell’Italia settentrionale e poi quelle del Reno, della Mosella e della Sciampagna. Tale collezione, con gli anni e grazie al suo profilo di degustatore, è cresciuta abbellendosi del Rodano, della Linguadoca-Rossiglione, e ancora della Spagna e del Portogallo. La sua curiosità, la sua energia e la sua capacità di concentrazione furono tutte messe al servizio della sua passione di enofilo, consentendogli di sormontare le difficoltà della spedizione del vino (durata dell’instradamento, condizioni climatiche, assalti dei pirati…). Preferiva gli scambi diretti con i produttori – sia per le condizioni economiche che per la conversazione – al punto da divenire un referente per le autorità fiscali. Un uso intelligente della via diplomatica ancora oggi difficilmente immaginabile.
Celebrazione del vino
Grazie tra gli altri a Lafayette, ha potuto apprezzare la vita delle menti più brillanti dell’Illuminismo parigino. Possiamo immaginarlo a suo agio in quei saloni, lo spirito vivace quanto il vino che descrive (chiama brisk i vini che oggi chiamiamo “perlant”, ossia i vini leggermente frizzanti).
Jefferson non era un collezionista nel senso museale del termine. Per lui bere era una celebrazione. Un augusto personaggio amante di una misurata mondanità. Nessuno contestava allora la sua convinzione che il vino fosse cosa seria. Ed era dunque importante non svilire il momento della sua degustazione, in quanto quello in cui se ne accoglie la sensazione, l’emozione, la cultura: il senso storico.
Un siffatto puritano ha trovato così nel vino un potente strumento d’evangelizzazione, non potendo il buon gusto prescindere dalla morigeratezza. Egli comprendeva il ruolo sociale del vino: il “saper vivere” non potrebbe esser compreso senza il “saper bere”. E quei saperi, all’epoca, erano francesi. Si trattava di esportare e replicare il modello, già immaginava il primo wine connoisseur della nuova America.
Non dimentichiamo quindi, in onore a Jefferson, a sua volta erede della millenaria civilizzazione, il ruolo del vino quale nobile mezzo di espansione del sapere e gustoso strumento di espressione culturale.
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1 Thomas Jefferson, citato in Bernard Ginestet, Thomas Jefferson à Bordeaux et dans quelques autres vignes d’Europe, Bordeaux, Mollat, 1996, pag. 118.
2 Della ricca bibliografia sul vino e su Jefferson, cito in particolare John Hailman, Thomas Jefferson on wine, Jackson, University Press of Mississippi, 2006; Jim Gabler, Passions: The Wines and Travels of Thomas Jefferson, Baltimore, Bacchus Press, 1995; Jim Gabler, An Evening With Benjamin Franklin and Thomas Jefferson: Dinner, Wine, and Conversation, Baltimore, Bacchus Press, 2006; Frederick J. Ryan, Jr., Wine and the White House: a History, The White House Historical Association, 2020, pagg. 20-25.
3 Thomas Jefferson, Thomas Jefferson’s European Travel Diaries, ed. James McGrath Morris, Persephone Weene, Ithaca, Isidore Stephanus Sons, 1987.